Coming out
Era ora, è ora.
Mi sono sempre sentitǝ fuori luogo negli ambienti fortemente maschili (la scuola calcio, certi gruppi di amici e conoscenti, la pista quell’unica volta in cui ci sono statǝ, certi eventi specifici che sul momento e per anni dopo ho esorcizzato facendoci battute sopra e che invece, a posteriori, adesso giudicherei inaccettabili) è stata una sensazione a cui non ho mai dato un nome. Tutt’al più, c’era un vago senso di inadeguatezza dove non riuscivo proprio a conformarmi a quel modo di pensare, sentire e agire. Non che fossi in direzione ostinata e contraria, sono una persona che dove la metti impara a stare, ma era come correre sulla ferrovia spostatǝ di una spanna a destra dei binari.
Intendo che mi sentivo ok nei contesti un po’ più misti (le mie due famiglie, la redazione de “L’Orco”, da Nora o con alcune persone), ma non sapevo capire questa sensazione. E non ci badavo quando qualcuno mi diceva che davo l’idea di essere gay o debole o isterica.
Come molte cose nella mia vita, è successo molto, molto tardi e ci sono arrivatǝ per via razionale: ho capito che l’idea con la quale non riesco più a convivere è quella del maschio. Ogni tipo di maschio è definito sulla base del modello del maschio alfa: per sottrazione, per differenza, per variazione, per complementarità, per sinonimia abbiamo il vero uomo, il vero maschio, il nerd, il secchione, il creativo, il bel tenebroso, il gregario, l’amico fedele, l’intellettuale, il capo, il leader, il boss, il mattatore… ma tutto, tutto si organizza intorno a quell’unico prototipo e alla gerarchia che ne deriva, con il suo centro e le sue periferie. A seconda delle persone può essere più o meno marcato, ma c’è quello stampino e quello stampino mi esclude da qualsiasi comfort zone, eccetto quando mi perdo nelle cose che faccio (pittura, lettura, scrittura, giochi di ruolo… ma allora non sono veramente io).
Per un certo periodo ho pensato di essere una donna trans mancata. Ci ho scritto un romanzo intero, su quel pensiero. Ragionavo per opposizione: se non stai qui, starai là. Poi, parlando del romanzo con una persona, ho iniziato a pormi la domanda: ma se i generi sono costrutti sociali, ne abbiamo veramente bisogno? Io ne ho veramente bisogno?
Me lo sono domandato seriamente: dove c’è bisogno di distinguere maschi e femmine? Non nel diritto (eccetto forse nel caso dei delitti di genere o di matrice queerfobica, ma non sono delitti che mi coinvolgono e io ho fatto questa riflessione applicandola a me), non nell’educazione… forse nella medicina. Eppure sappiamo che la medicina poi è costretta a declinare per le specificità del singolo individuo, anche quando all’inizio ragiona per macrocategorie come uomo o donna, anzianǝ o bambinǝ a un certo punto lǝ medicǝ apre la tua cartella e vede chi sei oltre le macrocategorie (certo che continua a tenere presente se hai la prostata o hai avuto un parto, ma sei tu, non la tua macrocategoria).
E quindi mi sono chiestǝ: e se non fossi più un maschio senza essere neppure una femmina? Se fossi semplicemente non binariǝ?
Vorrei poter dire che improvvisamente è come se mi fossi sentitǝ nel posto giusto, ma mi sono definitǝ maschio per 45 anni e non solo disimpararlo ma disimparare l’intero sistema binario è un’operazione complessa. Eppure non posso negare che… hai presente quella scena del Grinch in cui Cindy Lou dà un bacio al mostro che rubò il Natale e poi commenta:
— Your cheeks are so…
— I know, hairy? — Completa lui la frase. E lei lo corregge:
— No…
— Itchy? Stinky? [qualcos’altro di spiacevole che non riesco a capire]?
— Warm.
Ecco, quel warm lì.
Caldo, accogliente.
Pensarmi fuori da quello schema mi ha fatto sentire per la prima volta contemporaneamente io e in una comfort zone.
Ma è una questione politica?
La domanda è mal posta, anzi, rischia di essere tendenziosa nel momento in cui si riduce tutto a una “presa di posizione”. Ma certe prese di posizione sono necessarie per stare bene con se stessǝ e l’aspetto politico più ampio viene in un secondo momento. L’aspetto politico rappresenta tuttavia la maggiore conquista della mia istruzione, perché grazie ad essa ho potuto dare un nome a quello che prima era solo un malessere di sottofondo zittito a suon di responsabilità e traguardi e grazie ad essa posso dare un nome alla mia identità. UPDATE: però quando ho letto in “Storia transgender” di Susan Stryker che è possibile dichiararsi transgender anche solo per posizionamento politico, mi è piaciuto. Non ci avevo mai pensato.
Lo hai fatto solo perché ti sei separato?
La separazione non è la causa di questa consapevolezza (e viceversa), ma mi ha permesso di ragionare in modo più libero da certi tipi di struttura sociale che altrimenti finiscono inevitabilmente per funzionare come gabbie mentali. Quindi, secondo te, qual è la risposta a questa domanda?
Quindi adesso ti fanno schifo i maschi?
Un certo tipo di maschio, il maschio alfa, ha sempre suscitato il mio disgusto ma ho avuto bisogno di sviluppare gli strumenti concettuali per dare un nome al sistema, il patriarcato, che fornisce immagine e somiglianza al suo modello. Ovviamente no: ho avuto la fortuna di conoscere uomini sensibili, accoglienti ed egualitari, come mio padre, che ammiro e che ha funzionato da modello per molto di quel che sono oggi. Solo che io non riesco a riconoscermi in un sistema e ho bisogno di prenderne le distanze per stare bene.
E tutti i maschi dovrebbero fare come te?
Mi domando perché no: un rifiuto a livello globale dei binarismi sui quali si fonda il patriarcato (maschio-femmina, possessorǝ-possedutǝ, cacciatorǝ-preda, capǝ-sottopostǝ, vincente-perdente, sfruttatorǝ-sfruttatǝ, furbǝ-scemǝ) farebbe un gran bene all’umanità. Ma io parlo per me, quindi se nella tua domanda il condizionale dovesse essere sostituito dall’indicativo, la mia risposta diventerebbe un deciso “no”: certe trasformazioni devono partire da te, altrimenti non fanno che generare altro malessere.
Non è che non riesci ad essere il vincente che vorresti e quindi ti dai a questa cosa alla moda?
Iniziamo dal fondo: chiunque pensa che dichiararsi diversɛ dalla norma presenti un qualche tipo di vantaggio o sentirsi vincenti, soffre di cretineria avanzata. È ancora infinitamente più comodo e facile essere inquadratɛ nelle categorie tradizionali: anche se negli ultimi anni certe identità di genere e certi orientamenti sessuali godono di maggior visibilità di prima, guarda quali sono le lotte politiche che intraprendono le persone che vi si riconoscono: contro la violenza nei loro confronti, contro le discriminazioni, per l’accesso a certi servizi di base… è un po’ come dire che ormai ci sono tante persone di colore nei film americani e quindi il problema del razzismo in America è risolto, anzi, esiste il “razzismo al contrario” (che, pensaci un attimo, è un’espressione che tradisce una tale pochezza mentale da far ridere e rabbrividire allo stesso tempo).
E ora alla prima parte della domanda: già il fatto che tu ponga in questi termini la domanda dimostra che hai difficoltà a uscire da quello schema mentale: a me non interessa avere successo in quel modo. Quando ho vinto la borsa di studio per il dottorato ho festeggiato con un Kinder Cereali, perché ero felice di poter studiare e fare ricerca essendo pagatə; quando abbiamo fondato e poi condotto l’azienda che sarebbe arrivata a contribuire al mantenimento di oltre venti famiglie, io ero contentǝ di questo e di fare cose che hanno un impatto sulla formazione delle nuove generazioni, non di fatturare tanto e di essere lɛ migliori (anche se sono consapevole che lo siamo e che nessun’altra casa editrice digitale per la scuola fattura quanto noi). Non mi mancano i risultati che mi farebbero definire vincente nel tuo schema mentale, ma non è a questi che attribuisco importanza.
Indosserai le gonne?
L’ho già fatto quando praticavo la scherma medievale: avevo un kilt celtico, non era scomodo e il pisello all’aria era una goduria. In questo momento non ne provo il bisogno, se ne troverò che mi piacciono tanto e mi stanno bene non lo escludo. UPDATE: ho indossato delle gonne, vincendo timidezza, vergogna e difficoltà ad accettarsi “fuori dagli schemi”. D’estate sono fantastiche, d’inverno…. be’, meno.
E adesso con chi scopi?
Se dovessi essere interessatǝ a te, lo saprai. Ma se me lo chiedi, probabilmente non lo saprai mai.
Quindi adesso devo usare lo schwa con te? Guarda che io non so neanche come si pronuncia.
Io non mi vanterei della mia ignoranza ma, se davvero vuoi essere gentile, ti chiedo di usare con me quello che usi per te. Ti riconosci come maschio? Usa anche per me il maschile. Ti riconosci come femmina? Usa anche per me il femminile. Ti riconosci come non binariǝ? Usa quello che usi per te: schwa, u, soppressione, maschile, femminile, va bene qualsiasi cosa. Costruiamo la nostra comunicazione a partire da ciò che abbiamo in comune.
L’idea di questo comportamento linguistico non è mia: si tratta di una possibile declinazione di una proposta informale della linguista Manuela Manera che, spero, un giorno troverà spazio in qualche sua pubblicazione.
Bo’, almeno è facile. E quindi che cosa cambia?
Molto, moltissimo. E molto poco. Il cambiamento maggiore riguarda me, non te, ma ho preferito mettere tutto in chiaro in questo che è una specie di diario pubblico che tengo da un certo tempo perché così (perché è così che vanno le cose) quando qualcuno mi ripete una delle domande a cui questo testo risponde, se non ho voglia di ripetermi posso dire: vai a guardare il mio blog su medium, ho già risposto lì, adesso ho voglia di parlare d’altro.
UPDATE: forse lo fai solo per attirare attenzione?
Oddio, questa è una domanda davvero difficile… ah no, è solo così tendenziosa che non l’avevo neanche considerata, ma visto che due persone che hanno avuto il coraggio di pormela co sono state, rispondo: no… ma davvero tu pensi che qualcuno possa rivelare qualcosa di questo tipo per “attirare attenzione”? E quale attenzioni credi che ci si possa attirare?