Gestire le crisi
Un dialogo con Cristiana Caserta
Premessina
Conosco Cristiana da diversi anni per motivi professionali e, più o meno da quando uso LinkedIn, la seguo. È una delle docenti che riescono con continuità (non ho idea di come faccia, credo che abbia un Giratempo nascosto tra i libri) a esprimere sempre opinioni interessanti su didattica e docimologia. Non siamo sempre d’accordo, ma questo rende il nostro rapporto screen-to-screen più stimolante.
Ha anche lavorato per l’azienda per cui lavoro anche io, si è occupata della teoria del nostro software di grammatica greca Praxis, e quindi mi ha dovutǝ sopportare in un momento di crisi (perché nel mondo aziendale le crisi succedono, eccome) e, un bel giorno, mi ha proposto un dialogo sulla gestione delle crisi (eccolo qui su LinkedIn, se sei più avvezzǝ a quel social network o vuoi iniziare a seguirla anche tu).
E ora, parliamone
A: Quando mi hai proposto di scrivere un post a quattro mani sulla gestione delle crisi la mia mente è andata a tutte le crisi piccole e grandi che ha vissuto Maieutical Labs, ma anche a quelle individuali, alla crisi perenne in cui vive la scuola e, inevitabilmente, al covid. Forse definire cos’è una crisi è il primo passo da fare, ma a quale crisi pensavi tu?
C: pensavo alle crisi nella vita dei team: un lavoro fatto che contiene errori, un testo non destinato alla pubblicazione che viene pubblicato, un attacco esterno — cosa ormai frequente data l’esposizione social di quasi ogni lavoro, anche tradizionale — un cambiamento repentino delle condizioni esterne (come abbiamo sperimentato in tempi di pandemia). Ho fatto delle ricerche in proposito — risk management, crisis management — ma, alla fine, coerentemente con la mia formazione umanistica, ho trovato più utile “Crisi” di Jared Diamond, che parla di crisi degli stati — geopolitiche, dunque — usando modelli psicologici. Ma mi accorgo di non aver definito la crisi, prova tu…
A: oocchei (respiro), per me la crisi è una situazione di difficoltà senza soluzioni evidenti o senza soluzioni a basso costo. Vediamo se funziona: un lavoro fatto che contiene errori o un testo che non doveva essere pubblicato e lo è possono richiedermi di rifare il lavoro (costo alto), possono intaccare la mia reputazione (nessuna via di uscita) o la mia autostima (costo alto); un attacco online può costringermi a rispondere perdendo tempo (nella maggior parte dei casi si tratta di sea-lioning o di altre strategie a basso contenuto di significato, proprio solo provocazioni) oppure a bloccare la persona che mi ha attaccato (offrendo il fianco per ulteriori attacchi) oppure, di nuovo, vedere la mia reputazione intaccata, perché così funziona online: se non rispondi quei commenti rimangono come macchie sul tuo thread. Forse aggiungerei una variabile di tempo: una crisi dovrebbe poter avere effetti duraturi (allocare tempo per rifare un lavoro mi costringe a togliere quel tempo ad altro, a cascata). Ciò che distingue un normale problema da una crisi è quindi l’impossibilità di risolvere la crisi come un qualsiasi problema. È una definizione intuitiva, ma mi pare che regga. Se non sei d’accordo, questo è il momento di dirlo, altrimenti ti chiedo: cosa ti hanno detto le tue ricerche su cosa fare “quando un problema non ha soluzioni evidenti o a basso costo”?
C: sono d’accordo. La crisi è un setaccio (ti risparmio l’etimologia greca, che fa tanto cultura) da cui non passi tutto intero. Quindi, quello che devi decidere — se ancora puoi — è cosa buttare giù e cosa conservare. Questa decisione è fra le più razionali che puoi prendere, quindi — sempre se ancora puoi — prima devi separare l’emotività, o meglio lasciarla decantare. Spegnere la voce del cervello che trova delle giustificazioni, che ti soffia in testa che sei sfortunata, perseguitata, ingiustamente accusata o colpita dalla crisi. Io conosco un solo modo: correre. Metto le scarpe, la tuta, la musica e mi faccio una bella camminata di qualche chilometro. Inizio con una salita — dietro casa mia c’è una pineta — e quando sento i muscoli che bruciano e il respiro che si fa corto, trovo una grande concentrazione e in genere comincia a essermi chiaro cosa buttare giù.
Tu ce l’hai una pineta, dalle tue parti? (mi piace, questa cosa! è un po’ come giocare a scacchi!)
A: io quest’anno ho vissuto in troppe case, ma ho sempre trovato dei posti in cui camminare: boschi cedui, campi ritagliati da rogge e mulattiere, negli ultimi due mesi si è trattato di un ambiente strano: campi, orti, scampoli di terreno selvaggio frammisti a piccole aziende manifatturiere tra un centro di provincia e il Po. Per me le passeggiate sono parentesi: io lì non sono più io ma quel che mi sta intorno: niente musica, niente pensieri, porto il cellulare solo per fare foto, se serve. E quando torno alla quotidianità sono prontǝ a riprendere in mano la questione. A volte disegno degli schemi (a partire dagli e dalle stakeholder coinvolte), a volte faccio delle liste (vantaggi vs. svantaggi, mi sforzo di individuarne almeno cinque), a volte provo a descrivere la situazione in un brano “narrativo” e man mano le possibili soluzioni si intessono. Spesso saltano fuori più strategie concorrenti. A volte alcune soluzioni presentano un costo imponderabile a priori. Quando ho almeno un’ipotesi di “soluzione”, se riesco ed è opportuno mi confronto anche con qualcun altro. Non sono sistematicǝ nell’applicare una specifica strategia, ma direi che tendenzialmente passo attraverso queste sei fasi: caos, distrazione, brainstorming, confronto, applicazione, stringere i denti. Da quel che scrivi direi comunque che sia per me che per te è indispensabile “uscire” dalla crisi, prenderne le distanze per affrontarla… o è solo un’impressione?
C: No no. Non è un’impressione! Io ad un certo punto avverto il lato asfittico, autoconsolatorio, ripetitivo della crisi. E cerco di uscirne. Forzare i tempi però non serve. Il caos deve fare il suo sporco e caotico lavoro!! A questo proposito mi viene in mente un breve testo che qualche volta mando (assumendomi una certa responsabilità!) ai miei ragazzi di quinto anno; quelli che fanno esami di maturità. Si intitola:
IL VARCO DI MERDA
Più volte nella vita capita di trovarsi di fronte il varco di merda.
Il varco di merda c’è solo un modo di oltrepassarlo.
Oltrepassarlo.
Dopo che nei hai passati un po’ sai cosa ti aspetta nel varco di merda: merda, odore nauseabondo di merda, buio di merda, corpo lambito dalla merda, non sapere dove finisce il tuo corpo e dove inizia la merda, non sapere quando finirà il passaggio nella merda, confusione di merda.
E’ facile che avrai crisi di pianto e scoramento. Lacrime, paura e merda.
Poi, ad un certo punto, quando meno te lo aspetti, se ti impegni il giusto e lasci fare al varco di merda il suo lavoro di merda, ecco che il varco lo hai alle spalle. Hai passato il varco di merda.
Puoi andare a fare la doccia.
Ti asciughi ed ecco che senti l’effetto del passaggio del varco di merda.
Il tuo naso sente gli odori, mille altri odori oltre alla merda.
Non più solo merda ma odore di aria, di foglia, di pelle, di nuca, di panino, di portico, di cane bagnato e asciutto, di galaverna, di gemma, di candito tolto dal panettone di una che mangia il panettone ma senza canditi, di acqua che scorre.
E niente, tu annusi e ti dici, caspita quanti odori.
E respiri respiri respiri e odori e respiri e poi ancora.
Di una poetessa contemporanea che si chiama Alessandra Racca.
Solo per dire, in modo non molto raffinato, che la crisi deve fare il suo sporco lavoro: che è quello di farti desiderare di uscirne (viva, possibilmente) e che senza crisi neanche sarebbe possibile sentire tutti gli odori.
Quindi, magari viva la crisi no; ma insomma, se si deve, sporcarsi anche.
E niente non mi viene in mente nessun gancio….
Come la prenderesti se una prof a tua figlia (mi pare che ne hai…) mandasse un testo pieno di ‘merda’?
A: La prenderei bene, se la merda è questa e se lo spirito è quello giusto! Sono d’accordo su tutto, e mi pare che abbiamo toccato tutti i punti importanti eccetto forse come fare quando la crisi non riguarda soltanto te, ma altri e altre, che sia la classe o la squadra o il team aziendale. In quei casi è più complicato perché devi interagire e interagire, be’, può essere “complicato”. Nella mia esperienza è necessario fare due cose: delimitare il confine della crisi per capire chi va coinvolto, perché a volte in un team non tutti e tutte si accorgono di essere nel maelstrom, e comunicare nel modo più diretto possibile. In questi casi cerco di non essere aggressivǝ né rude, anche se non è sempre facile (in parte per fattori emotivi che spesso accompagnano le crisi, in parte perché modulare il messaggio significa togliergli immediatezza, ma il fattore tempo può essere centrale in una crisi). Nonostante la mia buona volontà poi capita che debba dedicare del tempo a gestire le conseguenze personali della crisi, e questo rientra nel discorso sugli effetti nel tempo delle crisi stesse. Tu come hai gestito le tue crisi “di gruppo”?
(continua….con un po’ di pazienza!)