“Innovazione didattica, dati alla mano: disuguaglianza e tecnologia”
Report interno, informale, tranchant ed emotivo dell’incontro del 25/01/2024 al MEET di Milano
- Organizzatori: Fondazione Cariplo (host c/o Meet), Politecnico di Milano, WeSchool;
- Chair: Massimo Cerofolini;
- i miei commenti sono in corsivo;
- ovviamente il linguaggio inclusivo è mia aggiunta;
- a breve aggiungo anche i link, per ora dovrai accontentarti del testo pulito.
Come nei migliori libri divulgativi americani, l’incontro si apre l’aneddoto di una esperienza didattica coronata da successo: in una scuola in provincia di Bergamo una docente ha creato un chatbot con le fattezze di Dante e poi l’ha fatto addestrare alla classe. E poi ha interrogato il chatbot invece della classe (e i voti li ha dati alla classe), aumentando partecipazione ed entusiasmo.
Le tre domande a cui si tenta di rispondere con questo incontro sono:
- il digitale migliora o peggiora l’inclusione? (Come se alcuni decenni di riflessioni sul digital divide non esistessero, ma qui si parlava dei loro dati, quindi ci sta.)
- i e le docenti sono pronti ad abbracciare l’innovazione?
- le IA generative sono dalla parte dell’inclusione o dell’esclusione?
Giovanni Azzone, presidente di Fondazione Cariplo riassume la situazione attuale: viviamo in una situazione di sovrabbondanza informativa il cui sistema educativo è stato creato per un contesto di carenza informativa (non l’avevo mai vista da questo punto di vista, ma è calzante: la nostra scuola è stata fondata in un’epoca in cui la scuola era l’unico posto in cui era possibile imparare certe cose e, come dimostra il report di Spotify del 2023 sul comportamento dei giovani (per il quale ricerche e consumo di podcast di materie “scolastiche” è aumentato rispetto al 2022), non è più così. Ripensando a quel che racconta nella parte finale del suo libro Cristianini, a un certo punto m’è venuto in mente che sarebbe bello profilare i docenti e il modo in cui lavorano per indirizzare le strategie commerciali, o almeno comunicative, sulla base dei dati).
Dopo le presentazioni di rito, l’incontro è diviso in due parti: esposizione della ricerca e poi una tavola rotonda.
La ricerca è stata condotta dal professor Agasisti del PoliMi e dal dottor Canino dell’Evaluation Lab.
Agasisti si è concentrato sulle tecnologie, Canino sul divario.
La ricerca: tecnologie
Due direzioni di ricerca: quali sono i trend di cambiamento? E: Indaghiamo il possibile utilizzo dei dati.
I metodi usati sono stati misti:
- data lake (1.7M di utenti di WeSchool raccolti tra ottobre 2019 e ottobre 2021);
- survey (1819 docenti);
- focus group (3 docenti per livello: primaria, ss1, ss2);
- analisi sia con modelli di statistica multivariata che con roba di machine learning.
Il sondaggio ha rivelato che tra prima e dopo i e le docenti si sentono assai più confident nell’uso delle nuove tecnologie; il focus group che la gamification è tra gli impatti positivi della DaD (gamificosa? Davvero non pervenuta…).
I dati: 1.7M di utenti spalmato su 270k classi (l’apparente incongruenza di circa sette studenti per classe verrà in parte chiarita dopo) che hanno fruito 2.6M di lezioni, eseguito 1M di esercizi, scritto 12.5M tra post e commenti.
La ricerca ha individuato tre tipi di studenti:
- partecipativ* (tanti accessi, tanto materiale fruito, tante interazioni);
- loquaci (tanti accessi e tante interazioni);
- spettator* (tanti accessi).
Alle primarie e alle SS1 gli e le studenti partecipano tanto se i compagni e le compagne cono comunicativi, mentre agli SS2 partecipano di più se il resto della classe completa le lezioni e gli esercizi proposti (“mettiti alla prova”, “poi ne parliamo insieme” come strategie comunicative vincenti da parte di chi insegna). Le e gli studenti partecipativi sono quelli delle classi in cui le quantità di esercizi e lezioni assegnati/disponibili sono direttamente proporzionali, ma il rapporto non è lineare: i risultati peggiori si hanno dove ci sono tante lezioni e pochi esercizi (un segno del superamento della didattica trasmissiva?).
In generale, si può concludere che il buon funzionamento del gruppo classe è fondamentale: imparare non è un’avventura solitaria (e nel caso della DaD mi pare che fosse ancora più centrale).
Questi dati sulla partecipazione sono stati letti alla luce del dropout dalla piattaforma (che in quel momento storico era dropout tout court dalla scuola): l’11% di coloro che non hanno finito i loro corsi in piattaforma, l’ha usata il 25% dei compagni e delle compagne. Ma, soprattutto: loro dopo otto settimane di dati erano in grado di prevedere con una precisione del 70% chi avrebbe rinunciato.
La ricerca: abbandono
Le due domande di questa parte dell’indagine sono state:
- le scuole dei territori poveri hanno incontrato maggiori difficoltà? Spoiler: sì.
- gli interventi fatti (investimenti in hardware per circa 200M€) sono stati utili? Spoiler: non lo sappiamo.
Hanno preso i dati da due momenti, alla fine dell’a.s. 19–20 e tra novembre 2020 e aprile 2021.
Dati 19–20: delle 9k scuole di WeSchool con 1.1M di studenti ne hanno selezionate 3.8k che raccoglievano circa il 50% degli e delle studenti (circa 130 studenti per scuola). Hanno correlato i dati delle scuole con quelli del MEF, a livello comunale o di CAP nel caso delle metropoli, confrontandoli con quattro indici di reddito (indice di Gini, altro indice di disuguaglianza, quota di contribuenti con redditi annui inferiori a 10k€, reddito medio). E hanno trovato che esiste una correlazione statisticamente significativa tra disuguaglianza economica e accesso in piattaforma.
Dati: 20–21: il numero di scuole è stato abbassato a 3.7k scuole (304k studenti con 62M di accessi. Non novità, se non il fatto che proseguire non dipende dalle disuguaglianze: c’è qualcos’altro che fa la differenza (opinione comune: la qualità dei docenti).
Tavola rotonda
Annarita Marzullo del MEF parla dell’Anagrafe Nazionale degli Studenti (di cui avevo già sentito parlare a Modena), che è uno strumento amministrativo pensato anche per contrastare la dispersione scolastica (sulla base dei loro dati e con machine learning stanno sviluppando modelli predittivi) e della piattaforma UNICA, che integra i dati dell’ANS e poi fornisce servizi gratuiti (per esempio una panoramica, grazie a un accordo con Unioncamere, che mostra andamento del mercato del lavoro e scelte scolastiche).
Ricci dell’INVALSI ha ricordato il rischio di attribuire etichette (se ne riparlerà) invece di agire.
Borgonovi dell’OCSE, menzionando i test PISA (ultimo uscito nel 2023) e PIAC (in pubblicazione a dicembre 2024) ha ricordato che gli strumenti digitali permettono di monitorare più cose: non solo i risultati, ma anche i processi, i tempi, il pensiero creativo. Ha anche aggiunto che dall’analisi dei loro dati emerge l’importanza per le e i discenti di essere esposti a un ampio range di media/canali/situazioni comunicative diverse.
Agostini (di Percorsi di Secondo Welfare, UniMI) racconta la ricerca, Nova Schola, che hanno fatto con un sottoinsieme di scuole del gruppo Avanguardia Educativa. Secondo questa ricerca la metodologia delle flipped classroom (lezione a casa ed esercizio a scuola) sta emergendo come strumento principe dell’innovazione didattica, perché garantisce maggiore interazione in classe e offre la possibilità accessibile di superare modelli educativi non più efficaci.
Guglielmini, la presidente della Fondazione per la Scuola (Compagnia di San Paolo), ha raccontato che stanno sperimentando con scuole di quattro comuni (Savona, Genova, Vercelli e Torino, se non sbaglio) una cosa che si chiama “Multipiattaforma” che incrociando i dati INVALSI e dei registri elettronici, grazie alla IA, individua i problemi e poi suggerisce ai docenti dei percorsi didattici individualizzati. Loro si stanno basando sul Modello Organizzativo Finlandese che:
- compatta i tempi: usa time-span lunghi per affrontare un tema in una prospettiva multidisciplinare (questa pratica è anche parte del Protocollo Senza Zaino, e l’ho visto applicare alla scuola media di Invorio, per esempio);
- punta sulle competenze socioemotive;
- produce una valutazione formativa e “motivazionale” (leggi: che evita la frustrrazione nella formulazione, valorizzando gli aspetti positivi e dando consigli su quelli negativi).
E poi (a sorpresa ma non troppo visto che l’argomento dell’IA in diverse forme aveva già fatto capolino) è risaltato fuori il rischio della profilazione degli e delle studenti, dela stigmatizzazione, dei bias degli algoritmi e del rischio di discriminazione (il caro Ricci l’aveva anticipato… mi piace sempre, quell’uomo!).
Borgonovi ha tentato una sintesi, abbozzando che se il mio profilo rivela punti di forza, smentisce lo stigma (me pare ‘na gazzata, ma ok, stava improvvisando).
Conclusioni?
I dati da WeSchool ci possono dire al massimo come cambia la didattica integrando una piattaforma, ma niente sull’innovazione della didattica per mezzo della tecnologia.
L’incontro è stato interessante e ha segnato direi due tendenze in crescita, una evidente che riguarda non la didattica quotidiana in classe ma il lavoro istituzionale e progettuale che dovrebbe esserle funzionale: l’emergenza delle IA che tutt* si affannano a voler usare; l’altra, più sotterranea, con solo mezzo secolo di ritardo rispetto ai primi lavori di Bloom: un’attenzione per la motivazione, anche attraverso il lavoro sul gruppo classe e la collaborazione in aula.