L’emozione di non essere un finalista
C’è una serie di post che il Premio Calvino pubblica tradizionalmente sullɛ finalistɛ del premio che si intitola “L’emozione di essere finalista” dedicati ad ogni membro della rosa, ma io penso che possa essere altrettanto emozionante (e forse più comune, ma declinato per ognunǝ in modo diverso) non essere finalistɛ, come è accaduto a me.
Ho partecipato al Calvino sostanzialmente per avere un’opinione su un romanzo che per me è molto importante perché io certi tipi di riflessione riesco a farle soltanto calandole in una storia, preferibilmente con un’ambientazione fantasy, e con quel romanzo ho messo in discussione la mia identità di genere per la prima volta.
Tra il momento in cui ho iscritto il mio racconto e oggi sono cambiate molte cose, dentro e fuori il romanzo. Per esempio l’ho fatto leggere a una persona sensibile e sensibilizzata che mi ha sbattuto in faccia una questione di principio cui non sono ancora venuto a capo ma mi ha anche aiutato a migliorare e di molto la storia con tre interventi puntuali ma con ampie conseguenze non tanto sulla storia quanto sulla sua fruibilità.
Ma nel frattempo ho anche (in maniera del tutto ingiustificata) iniziato a desiderare di essere candidato finalista.
Diventare finalista avrebbe rappresentato una forma di riconoscimento in un periodo della mia vita in cui tutto quello che faccio sembra andare per il verso sbagliato.
Non penso di scrivere male, e la storia che avevo messo in piedi era interessante, anche se forse l’idea di metterci dentro gli schwa poteva non essere apprezzata. Ma è anche vero che i tempi sono maturi per vedere riconosciute sperimentazioni linguistiche anche fuori dai meravigliosi contesti delle case editrici che hanno iniziato a proporre questa soluzione (Eris, Effequ, Moscabianca per fare giusto tre nomi).
Queste ultime settimane, in cui ho disperatamente aspettato una telefonata che non è mai arrivata, hanno indotto alcune riflessioni sulla motivazione e sui contesti.
Abbiamo iniziato a parlare di motivazione anche al lavoro a proposito dei test motivazionali per lɛ studenti: servono a chi insegna? In teoria sì, ma in una classe da 25–30 persone il singolo profilo sarà sempre destinato a perdersi, soprattutto se molto discosto dalla media e quindi, peraltro, probabilmente più bisognoso di intervento mirato.
Ma c’è un altro elemento che non dovrebbe essere sottovalutato: ha senso profilare la motivazione (percezione di riuscita, impegno, motivazione ad apprendere) senza profilare le famiglie e le cerchie amicali? Voglio dire: è lì che trascorrono tutto il tempo quando non sono a scuola, è da lì che dovrebbe venire la prima spinta motivazionale.
Quanto sarà motivato uno studente che vive una situazione complicata a casa? Problemi di soldi, problemi di genitori, problemi di salute sono nemici dell’apprendimento.
Quanto sarà motivata una studente che vive in un quartiere problematico? Modelli di successo tossici, mancanza di stimoli al ragionamento critico, economia di sussistenza sono altri nemici dell’apprendimento.
Ma che senso ha profilare la motivazione senza profilare coloro che in seconda battuta dovrebbero fornirla: lɛ docenti?
So di un docente che nel corso dell’anno ha messo le note a una studente che dormiva in classe. Dormiva. Non: chiacchierava, faceva baccano, si distraeva (e ogni cosa dovrebbe sollevare domande, non sollecitare note). Dormiva. Quanto devi essere superficiale e incompetente per non realizzare che se unǝ studente dorme in classe, probabilmente non riesce a farlo a casa, che ci sono per lǝi problemi più grandi della tua materia scolastica? Ma soprattutto, quanto cretino devi essere per pensare che una nota possa risolvere il problema, se non sai neanche quale è il problema?
Ma il punto è anche un altro: quantɛ sono lɛ docenti che durante un consiglio d’istituto o di dipartimento si comportano esattamente come richiedono di comportarsi allɛ loro allievɛ a lezione (non chiacchierare, fare attenzione, non perdere tempo, essere praparatɛ)?
Che motivazione può venire da docenti che non credono loro per primɛ nei loro metodi e nei loro ruoli?
E quantɛ sono lɛ docenti che sperimentano modelli didattici diversi da quelli cui sono abituatɛ? Non usare la LIM per fare meglio o diversamente quello che facevano già prima (cioè: lezione frontale, perché ancora lì siamo), ma flip-classroom, apprendimento collaborativo, lezione segmentata, self o peer-assessment… qualcosa che giochi, in qualche modo, o sulla struttura della lezione o sul ruolo dellǝ docente.
Non vorrei passare per uno che ama parlare male dellɛ docenti: anche loro sono inseritɛ in un contesto più ampio e dietro unǝ cattivǝ insegnante spesso ci sono dirigenza e segreteria didattica e Ministero-attraverso-i-propri-organi-deputati che non fanno il loro lavoro.
Aggiungo un livello di complessità: che senso ha profilare la motivazione senza profilare la situazione d’apprendimento? La classe è rumorosa?, calda?, fredda?, noiosa? Il protocollo della Scuola Senza Zaino ha proposto interessanti innovazioni in merito, ma non mi risulta che siano mai state fatte misurazioni su questo. Peccato.
Mi dirai che sono per il Controllo Totale e per il Grande Fratello? Non ho detto che si debba fare queste profilazioni, ma mi domando che senso abbia farne una senza le altre.
Voglio dire: magari non vinci un premio perché a dispetto della tua percezione non sei bravǝ come credi, oppure perché hai partecipato al concorso sbagliato, oppure perché quel romanzo non era scritto abbastanza bene, oppure perché lɛ altrɛ concorrenti erano così fottutamente bravɛ che non se ne parla proprio, ma se prendi in esame solo uno dei parametri, per quanto ricco e articolato, rischi di perdere qualcosa di essenziale.
Ora unǝ psicometrista potrebbe dirmi: “be’, bisogna anche essere pragmatici: non puoi impazzire a misurare ogni cosa. Le mie analisi fighe e accurate ti mostrano che c’è qualcosa sotto il tappeto, poi sta a te alzarlo e capire cosa c’è che non va”.
Vero, ma noi sappiamo che quel tappeto non lo alzerà nessuno, che il profilo motivazionale verrà recepito per quello che è: un risultato.
Dopotutto, stiamo parlando dello stesso sistema scolastico che ha più o meno volontariamente frainteso (con le solite eccezioni) uno strumento come l’INVALSI, che era prima di tutto uno strumento diagnostico: la reazione generale all’invalsi è stata: “tu non puoi permetterti di giudicare il mio lavoro perché ho una competenza specifica e perché tu non sei in classe” (che in forma edulcorata mi sono sentito dire anche come genitore) e non: “eseguo al meglio, recepisco i risultati, capisco come migliorare la mia pratica didattica e le performance dellɛ studenti”.
In realtà non so se altre e più urgenti emergenze hanno deviato la mia attenzione, ma ho avuto l’impressione che l’INVALSI non fosse così ostinatamente osteggiato, magari è solo il solito lunghissimo tempo di cui necessitano i cambiamenti culturali, che menziono sempre quando discuto con lɛ responsabili del dev team a proposito dei mis-use che a volte redazione e commerciale fanno di Trello, o di Slack o di uno qualsiasi degli altri software che usiamo per gestire i flussi di lavoro, i clienti, la comunicazione, i dati.