Ritorno all’università
(ma solo per una lezione)
Oggi c’era una giornata in onore di Carla Marello, che è sicuramente stata la docente dalla quale ho imparato di più di cose accademiche, quella che stimo di più da un punto di vista umano e intellettuale (ma tu non dirglielo perché non credo di essere, come dire, un punto d’onore nella sua carriera di docente), e quindi sono andatǝ ad ascoltarla.
È stata una grande emozione.
E poi c’erano colleghe di dottorato e volti visti nel tempo: c’era il docente Bel Riccio dei miei tempi, che ormai sarà sulla soglia dei sessanta, che secondo me s’è assopito a un certo punto e c’era il presidente dell’Accademia della Crusca (che non ho mai applaudito perché se prendi posizioni trans escludenti poi non meriti gli applausi delle persone trans, sic mihi licet). È anche arrivata Bice Mortara Garavelli, che i sessanta li ha superati da un pezzo e rivederla ha smosso qualcosa dentro di me, tra l’aorta e l’intenzione.
Tornare nei dintorni di Palazzo Nuovo, peraltro, si è configurato come una specie di Ritorno al Futuro 2: per me il palazzetto Aldo Moro era una struttura monopiano che si affacciava su un parcheggio sterrato, oggi per raggiungerne l’Auditorium sono scesǝ per una scala e ho costeggiato un supermercato sotterraneo. Cioè, veramente un altro mondo.
Ma non è per discettare dei miei incunaboli che ho iniziato a stendere questo post, invece ci tenevo a condividere qualche riflessione.
Parlando di dizionari, Carla Marello spiegava perché apprezza in quelli elettronici la possibilità di vedere i pdf delle pagine delle voci ricercate (dei dizionari nati per il cartaceo, ovviamente): perché si mantiene più la visione d’insieme. Lei parlava delle parole prima e di quelle dopo, per esempio della facilità di riconoscere parole con la stessa radice (vs. solo una parola alla volta nei dizionari online), ma c’è anche altro. È qualcosa che io notavo con i libri sul Kindle: quando leggi i libri digitali tendi a perdere due cose: la copertina e il punto in cui sei arrivatǝ. Certo, certo, c’è la barra di scorrimento o la percentuale, ma è un’altra cosa. Sarà perché il nostro cervello ha impiegato gli ultimi centomila anni ad evolversi per interagire con un mondo fisico, ma il senso del “punto a cui sei arrivatǝ” è tanto più tangibile e comprensibile se hai un segnalibro e lo vedi avanzare attraverso le pagine come un sapienturiere in una giungla di parole.
La cosa ovviamente non si ferma a questo. Vedere un percorso evidenziato su google maps è diverso che trovarlo e vederlo in una mappa di carta. Ascoltare un pezzo su spotify o su amazon musica è diverso che mettere il CD nel lettore e ascoltarlo insieme al resto dell’album sfogliando il libretto con i testi. Scattare foto col cellulare restituisce una esperienza diversa, molto più verticale e mediata, rispetto a quella della macchina fotografica. Addirittura leggere l’ora digitale restituisce una percezione diversa dello scorrere del tempo rispetto a un orologio con le lancette (l’orologio con le lancette trasforma il tempo in spazio, l’orologio digitale trasforma il tempo in sequenze numeriche).
Interagire con persone in carne e ossa è diverso che farlo su facebook perché si perde la visione d’insieme della persona e della relazione umana.
Quindi? Neo luddismo a manciate? No, affatto, il digitale è comodo, anche se fa perdere la visione d’insieme. Il punto al quale mi interessa arrivare è un altro, perché qualcuno che la visione d’insieme la mantiene ben stretta c’è ancora. Ci sono specialistɛ di vari settori, tecnicɛ, analistɛ e persone che sviluppano software, prendono decisioni di mercato, fanno in modo che la gente prenda decisioni… queste persone la visione d’insieme ce l’hanno e anzi cercano di raffinarla sempre di più. Se è così (ma potrei sbagliarmi) allora stiamo assistendo a uno scenario in cui le persone comuni (cioè non dotate di particolare potere) hanno scambiato la visione d’insieme con la comodità, lasciando la visione d’insieme a una classe di persone che non ha paura di sfruttare i vantaggi della scomodità nel conoscere ma ne ottiene in cambio potere. È quello che non esiterei a definire l’avvento di una tecnocrazia. E ci siamo proprio in mezzo.
Poi, visto che il mondo è meraviglioso, è possibile assistere a spinte in direzione contraria: proprio nel mondo dello sviluppo software da una ventina d’anni sono in atto esperienze (scrum e agile, per citare due concetti connessi tra loro e che afferiscono a quest’ambito) che hanno al loro centro esattamente la condivisione di un processo globale: chi sviluppa con metodo agile non è più (o non dovrebbe più essere) qualcuno che si limita a tradurre in codice delle specifiche tecniche ma qualcuno che compartecipa al processo (oltre che al prodotto) in maniera più dialogica.
In generale il mondo dell’IT ha questa caratteristica: alla periferia di agglomerati multinazionali con una capacità di spesa apparentemente illimitata esistono delle comunità, talvolta distribuite, che sperimentano e propongono alternative, strategie ed esperienze in alcuni casi potenzialmente dannose per le multinazionali (come il free software) in altri no (come scrum o quello che fanno i makers, che in effetti non è necessariamente IT anche se esistono punti di intersezione tra i due universi). Si potrebbe quasi dire che l’informatica sta realizzando le proprie distopie cyberpunk nell’opposizione tra megacorporazioni e cellule hacker.
Ma allora mi chiedo, in un quadro generale in cui alle vecchie aristocrazie si affiancano nuove e aggressive tecnocrazie (qualcuno ha detto “American Gods”?), quali sono le sacche resistenti, rivoluzionarie o semplicemente innovative che propongono modelli alternativi? Quali sono questi modelli? Possono essere travasati da un contesto agli altri?
(E, comunque, ascoltare la prof Marello continua ad essere fonte di ispirazione…)