Sistemi che si difendono
e memetica, in due parti più un sorriso
Parte 1: imprenditoria
L’altro ieri ero alla Scuola di Amministrazione Aziendale di Torino a una giornata intitolata “Voglia d’impresa” (video, ma non della parte in cui ci sono io) organizzata dalla Regione Piemonte a sostegno dell’iniziativa MIP (Mettersi In Proprio): Maieutical Labs è nata col MIP e sono rimastǝ in ottimi rapporti con loro, quindi quando mi hanno chiesto se potevo venire come rappresentante di una realtà nata lì per parlare di imprenditoria e innovazione sono statǝ felice di partecipare.
Ho anche imparato alcune cose interessanti, per esempio che nel DNA dell’impresa italiana ci sono generalmente:
- piccole dimensioni;
- più imprenditorialità (fare) che managerialità (guidare);
- aziende di proprietà familiare;
- vocazione prevalentemente manifatturiera/artigianale (nel senso di cura artigianale non di alla cazzo di cane).
A mio parere tutte e quattro le cose dipendono dal fatto che l’impresa innovativa dipende dalle persone e dal loro “potenziale di evoluzione” più che dalle idee, ma questo vale anche fuori dall’Italia: un’impresa manifatturiera come Apple quando è morto Jobs ha smesso di innovare; d’altronde un’impresa italiana come GROM, che era fin dall’inizio basata più su un’idea che sul potenziale dei suoi due fondatori, ha smesso di fare il gelato artigianale.
Il che non prevede una valutazione, anzi: le imprese basate sulle idee hanno più potenziale di crescita.
Comunque, è andato tutto benissimo finché una ragazza, che si è presentata come femminista e che pensa di creare un’azienda che si occupi di questioni di genere, ha chiesto a me e all’altro imprenditore (il fondatore de Il Mannarino, che vende carne online) se secondo noi c’è un mercato per lei nel mondo delle imprese italiane. Avrei dovuto risponderle che non c’è nelle imprese piccole ma che esistono dei margini in quelle grandi (tu, coraggiosa ragazza della penultima fila, se percaso mi leggi, sappi che la risposta che avrei voluto darti era questa!), ma io non sono unǝ con la battuta pronta, e il mio collega, un laureato in economia brianzolo, è immediatamente partito al contrattacco sostenendo che il problema non esiste, che lui ha responsabili sia maschi che femmine e quindi non ce n’è bisogno. Io, che mi sono presentatǝ a mia volta come “femminista o quantomeno alleato” (sarebbe stato più corretto definirmi transfemminista ma ok), ho ribattuto che in realtà il problema c’è, e viene ancora prima dell’ingresso in azienda o della creazione d’impresa: quando alle donne (non) vengono forniti gli strumenti per arrivare a dire “mi candido per questa posizione” oppure “voglio fare impresa”.
E a quel punto ho assistito a una dinamica davvero affascinante, perché la replica è stata: “questi discorsi avvelenano l’ambiente” e “non è vero perché io guardo solo le competenze quando decido se assumere qualcuno, non il sesso”.
Il mio interlocutore era così spaventato all’idea che gli stessi dando del maschilista, che non ha neanche capito che non stavo parlando di lui o di imprese, ma di una situazione sistemica.
Lo stesso tipo di situazione sistemica che ha invece correttamente individuato quando ha in sostanza detto che dipendentɛ e imprenditorɛ non devono farsi la guerra ma andare insieme contro lo Stato perché il sistema paese non aiuta l’imprenditorialità. Cioè, questa persona, sicuramente intelligente e capace di fare un certo tipo di astrazione, non è stata in grado di farla nel momento in cui le mie parole hanno aggredito il suo set memico orbitante intorno al concetto invisibile di patriarcato.
Il suo set (ma non solo il suo: a un certo punto la sala è esplosa in un fragoroso applauso di sostegno all’idea che uomini e donne sono ormai perfettamente pari, che il maschilismo è roba vecchia e che io stavo inventandomi un problema che non esiste) si è difeso ed è partito all’attacco ricorrendo (anche in conversazione privata, successiva) a più o meno tutti gli argomenti standard del caso: tempi (“non è più così”), luoghi (“altrove magari sì, ma qui no”) e anche la natura (“ho il reparto tecnico che è praticamente tutto di maschi e il marketing praticamente tutto di femmine, ognuno fa quel che vuole”. Se te lo stai chiedendo: no, non gli ho risposto “le femmine tutte marketing e i maschi tutti IT? E questo non ti fa porre qualche domanda?”, ma solo perché non ne ho avuto il tempo).
Intendiamoci, il mio interlocutore non è stato mai aggressivo, assolutamente. Al contrario: i suoi argomenti erano portati con estrema pacatezza e sicurezza, la pacatezza e sicurezza di chi è convinto di avere ragione. Anche perché il patriarcato ha qualcosa dei teoremi di incompletezza di Goedel, non nel senso che dal suo interno non è possibile dimostrarne la coerenza, ma nel senso che dal suo interno non è proprio possibile vederlo, per questo lo definisco un concetto invisibile.
Insomma, ho assistito a una tradizionalissima battaglia tra set memici, cosa che io trovo sempre affascinante. Per questo dico che è andato tutto benissimo fino a quel punto: poi è andata ancora meglio.
Ma ho parlato di azienda, come mai il mio argomento preferito è un altro, meglio recuperare.
Parte 2: scuola
Proprio poco dopo esser uscito dalla SAA, ho sentito un’amica che aveva fatto l’orale del concorso per diventare docente in Liguria.
Molto indirettamente ho seguito la sua preparazione: so che si è ciucciata un mucchio di libri di didattica, che ha fatto un lavoro enorme sia sulla disciplina che sui metodi. Insomma, so che è preparata e non mi ha sorpreso sapere che ha ottenuto l’abilitazione.
Mi ha raccontato alcune cose molto interessanti, infatti la commissione per la sua classe di concorso:
- ha ignorato tutto il lavoro sul metodo, l’inclusività e le competenze. Non si sono preoccupatɛ di guardare il lavoro fatto per offrire un compito in classe inclusivo e non erano interessatɛ all’ipotesi di creare lezioni segmentate o altre soluzioni non tradizionali;
- ha chiesto collegamenti interdisciplinari… legittimi, ma piuttosto arbitrari visto che, dopo un certo numero di collegamenti “corretti ma non ancora sufficienti”, la candidata ha scoperto in una occasione che il collegamento che la commissione si aspettava era in realtà con un argomento che si affronta in classe all’inizio dell’anno, mentre l’argomento da lei affrontato nella traccia si fa alla fine dell’anno (e la mia amica ha fatto presente che non avrebbe senso un collegamento con un argomento così specifico così lontano nel tempo). In un altro caso, ipotizzando che la traccia fosse stata pensata per un altro tipo di liceo, in cui si facesse latino, le è stato chiesto quale collegamento con la letteratura latina fosse possibile fare: senza entrare nel merito dei collegamenti stessi, ha me ha stupito il giochino di “trovare i collegamenti” a prescindere dalla traccia nella sua globalità (la traccia, per un altro indirizzo di studi, sarebbe stata pensata diversamente, come mi ha fatto presente la candidata).
Ci ho messo un po’ a capirlo perché, se mi segui ormai lo sai, non sono un proprio svegliǝ. Ma quando ci sono arrivatǝ è stato un piccolo satori: perché lɛ docenti della commissione hanno fatto un esame e hanno prodotto una valutazione tutta orientata alle conoscenze e non alle competenze?
Perché non credono nelle competenze e hanno avvantaggiato lɛ futurɛ docenti che hanno impostato il loro esame (e quindi prevedibilmente la loro futura pratica didattica) sulle conoscenze e non sulle competenze.
Il set memico della didattica dell’avere, minacciato dal set memico della didattica dell’essere, ha lottato per sopravvivere nella futura generazione di docenti.
Facilitare la strada ai vettori di set simili al nostro è il metodo più semplice (ne è un esempio universale il concetto religioso di “carità” che ha esattamente questo scopo), anche se non sempre il più astuto: nella fattispecie, la didattica tradizionale basata sulla conoscenze, con un mondo in così rapida evoluzione, è destinata a scomparire se non si ibriderà almeno un po’. Ma non è difficile, perché per qualsiasi competenza è necessario un bagaglio di conoscenze specifiche. Bisogna solo ragionare in questi termini e trovare (per quello che vedo ancora non esistono) i modelli didattici che riescano a coniugare i due approcci in maniera esplicita.
Conclusioni: so che sembra finto, ma no.
I nostri corpi sono i vettori e i campi di battaglia delle nostre idee, perché le idee non si riproducono e non sopravvivono senza i corpi, quindi usano il linguaggio per diffondersi da un corpo all’altro; e lo fanno non per una qualche volontà, le idee non hanno volontà, ma come virus che mettono in atto le loro strategie di diffusione ed evoluzione e di nuovo diffusione perché così facendo continuano ad esistere. O, meglio: vediamo che continuano ad esistere perché hanno messo meccanicamente in atto quelle strategie e quindi sono sopravvissute.
Questo è uno dei principi, detto male, della teoria nata ne Il Gene egoista di Richard Dawkins, approfondita ne Il fenotipo esteso dello stesso autore e riassunta nel bellissimo volume di Susan Blackmore La macchina dei memi.
Nella stessa sera dei due eventi descritti poco sopra, sono uscito con un vecchio amico.
Abbiamo bevuto troppo vino, mangiato vegetariano molto bene (il locale, se passi da Torino, si chiama The wine nest) e chiacchierato con estrema leggerezza di cose molto personali e profonde, e a un certo punto abbiamo parlato di figliɛ. Perché il mio amico non ha figliɛ, e a lui sta bene, ma sua moglie patisce un po’ la cosa. È facile capire perché: soprattutto sulle donne, esistono delle pressioni sociali e familiari a fare figli. Significare le donne come madri o puttane è funzionale al patriarcato, in più esistono davvero genitori del cazzo che ricorrono pubblicamente a ricatti emotivi su figli e figlie perché si riproducano (ma non so se questo è il caso, io l’ho visto altrove).
Quel su cui siamo d’accordo io e il mio amico, però, è che il vero lascito di ogni persona non è biologico, ma culturale. L’importante non è il tuo corredo genetico, ma sono le tue idee e i tuoi valori. Dici di no? Immagina, nello spazio della famiglia tradizionale, la scena: la mamma o il papà di un bambino di cinque anni preferirebbero sapere che il loro figlio non è biologicamente loro, ma tenerlo con sé, oppure vederlo dato in adozione a qualcuno che ha idee diametralmente opposte alle loro, ma con la certezza della discendenza biologica? Preferirebbero tesaurizzare il loro investimento culturale o quello biologico?
Anche se, quando ci accoppiamo (non nel senso di uccidiamo), nella scelta del o della partner intervengono subliminalmente valutazioni sulla possibilità di una discendenza biologicamente forte, ciò che ci tiene insieme nel tempo sono le nostre idee. Ciò che veramente ci fa sopravvivere alla nostra morte, sono le nostre parole, quello che facciamo, l’influenza che abbiamo avuto nel formare le altre persone, nel renderle capaci di diventare autonome e a propria volta avere influenza sullɛ altrɛ.
Poi, alla fine di tutto il pippone, mi sono reso conto che anche questo stesso pippone sono i miei set memici che tentano di diffondersi.
E ho sorriso.