Lapidi di carta
Un nuovo post dopo tanto silenzio
Per un mucchio di tempo ho vissuto anche questo conflitto interiore (che però almeno ero in grado di verbalizzare): mi pare di scrivere accettabilmente, eppure non solo non riesco a far pubblicare la narrativa che scrivo, ma in molti casi non riesco neanche a farla leggere, nel senso che molta gente a cui ho chiesto di leggere quel che avevo scritto non lo ha mai fatto.
Non entro nel merito: non era dovuto e ognunə ha i propri problemi.
Ma, certo, quando mi capitava di leggere libri pubblicati che per me sono oltre il confine della decenza, quel senso di frustrazione si faceva più complicato.
Per molto tempo ho pensato che dipendesse dalla mia scarsa attitudine sociale: conosco diverse persone che scrivono davvero bene (e cose molto interessanti) che, nonostante questo, non credo sarebbero mai state pubblicate se non fossero state conosciute dalle persone giuste. E non parlo di circoli familistici o clientelari, parlo di persone che grazie al loro lavoro o a quella che si chiama “sfera social” hanno visto riconosciuta la loro autorevolezza e hanno avuto la possibilità di comunicare pubblicando. Ripeto, queste persone lo meritavano indipendentemente e prima di “diventare qualcuno” fuori dai libri.
Io quel qualcuno non lo sono mai diventato, non ne sono capace. Ci sta, lo accetto (non posso fare altrimenti).
Da diversi anni avevo rinunciato a pubblicare ma partecipavo ai concorsi letterari per le schede di valutazione. Per capire.
Non ho avuto sempre fortuna con queste schede (in due schede sullo stesso romanzo si perdeva più tempo a parlare dello schwa che a dirmi cos’altro non funzionava) ma, grazie a una scheda del premio Odissea di quest’anno, ho capito.
Ho capito perché non capivo dove stia il problema se “è spesso il discorso diretto che fa avanzare la trama”, o che cosa vuol dire che “i personaggi e le situazioni appaiono a volte un po’ meccanici” e “non si riesce a afferrare il ‘fil rouge’ della narrazione, è come se mancassero le motivazioni dei personaggi”. Non lo capivo perché il romanzo è un romanzo fantasy steampunk con personaggi che speculano in continuazione, sballottati da trame più grandi di loro, incalzati da meccanismi inesorabili rivelati solo alla fine ai quali rispondono pavlovianamente.
Cioè, io volevo scrivere un romanzo i cui personaggi fossero vittime di un destino di fronte al quale non avevano altra possibilità che parlare e che più che all’obiettivo dei prossimi cinque minuti non puntassero. E in cui, inseguiti da utenti di magia della conoscenza, a un certo punto facessero perdere le loro tracce anche a chi leggeva (nascondendosi in altre storie) come se chi leggeva fossero “i maghi cattivi”. E che partisse lento e funzionasse con un giallo senza essere un giallo.
Io voglio scrivere queste storie proprio così perché a me piacciono proprio così e quindi niente, non sono abbastanza bravə per essere pubblicatə non per via delle mie scarse attitudini sociali ma perché quello che scrivo non funziona (e poi, certo, perché non so “costruirmi un pubblico adatto alle mie storie”).
Ci sta.
E quindi? E quindi niente: questo per me è un diario, non ho bisogno di finalizzare i miei post. Però, poiché io scrivo dei diari in cui trasfiguro quello che provo in storie fantastiche, e in cui quindi a ogni romanzo corrisponde un preciso periodo della mia vita, avevo bisogno di “concludere” con una lapide di carta quei periodi. E nel mese del pride ho iniziato a costruire il mio cimitero dei momenti passati partendo dai momenti di presa di coscienza della mia identità di genere.
Su Amazon, che è la soluzione più economica e che mi suona appropriato come luogo in cui costruire cimiteri.
Oggi la prima lapide: un romanzo (non quello menzionato sopra) di heroic fantasy con protagonista una principessa transgender, che risale al periodo in cui di sono chiestə: ma se non sono un uomo, forse sono una donna? Qui, le prime 200 pagine su 331.