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Perché devi videogiocare

con lo smartphone

Adri Allora
7 min readAug 9, 2022

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L’avvenire è dei curiosi di professione.

(Albert Sorel, in “Jules et Jim”)

Una chiamata alle armi

Nel mondo, nel 2018 l’utente mediǝ ha trascorso circa tre ore al cellulare[1]; in Italia[2] il possesso del primo cellulare o smartphone si registra in media a 10–11 anni e la percentuale di popolazione tra i 6 e i 17 anni che ha effettuato un accesso quotidiano a Internet varia tra il 41 e il 63%, ovvero la metà dellɛ ragazzɛ in età da obbligo scolare è tutti i giorni on line[3].

Lǝ cittadinǝ tipo del futuro sarà probabilmente, perché lo è oggi, una persona che presuppone l’accesso alla rete nel proprio orizzonte epistemico: la rete è diventata un vademecum (letteralmente: vai con me) e un manuale (sempre a portata di mano) la cui consultazione è alla stregua di un set di ricordi che dobbiamo semplicemente richiamare alla memoria. Ma che è lì, disponibile.

D’altronde, se non fosse vero non avremmo avuto bisogno di importare e adattare all’italiano il verbo googlare. E succede quotidianamente di sentir dire che “vedere su googlemaps dove sta un posto è più veloce che farselo spiegare” (anche se lɛ adolescenti del 2022 cercano il posto in cui mangiare attraverso tiktok e Instagram).

Gli scienziati cognitivi Sloman e Fernbach spiegano che la mente umana ha difficoltà a distinguere quello che effettivamente contiene e quello a cui ha accesso, e questa disfunzione (utile per esempio ai fini della collaborazione, della strutturazione in società e della sicurezza in se stessi) ci porta a sopravvalutare la nostra capacità di capire come funziona il mondo. La prova, spiegano, è abbastanza semplice e a portata di mano: chiedi a una persona senza una formazione specifica sull’argomento se sa come funziona uno sciacquone, la risposta sarà molto probabilmente “sì”. Subito dopo chiedi alla stessa persona di spiegartelo: ecco, lì iniziano i problemi.

Se mettiamo insieme i due elementi:

  1. Internet è a portata di mano;
  2. gli esseri umani non distinguono bene quello che sanno veramente da quello che hanno a portata di mano.

Il risultato è una specie di imbecille delirio di onnipotenza in cui tutto sembra facile grazie agli how to su youtube, studiare non è necessario perché tanto c’è wikipedia, sapere non è utile perché c’è google e per risolvere i problemi di una nazione basta trovare un colpevole da linciare su facebook.

Bene, fermati un attimo a pensare al capoverso che hai appena letto: è proprio così! In questo momento! Qui!

Se è vero che la satira è uno dei più sensibili termometri che abbiamo a disposizione per misurare lo stato della situazione generale, la pubblicistica dimostra che stiamo andando globalmente in questa direzione almeno dal 27 dicembre 2016 quando, sul New Yorker, comparve la vignetta del passeggero di un aereo che rivolgendosi alle altre persone sui sedili diceva: “Questi sbruffoni di piloti hanno perso il contatto con noi comuni passeggeri. Chi pensa che dovrei pilotare io l’aereo?”

La vignetta è di Will McPhail, che è un grande.

Eccolo qui l’atteggiamento che è necessario combattere, se non vogliamo davvero trovarci in uno scenario non troppo dissimile a quello del film “Idiocracy” (2007, Mike Judge) in cui la stupidità e l’incompetenza regnano sovrane.

Questo è un frammento che apprezzo molto. Le argomentazioni con cui viene difesa l’idea che una certa bevanda per sportivi è meglio dell’acqua per irrigare le piante è sublime.

Ma dobbiamo fare un passo avanti, perché la tentazione di dire che la tecnologia o la rete è il male significa “trovare un colpevole da linciare” e non risolve niente.

Internet e gli smartphone sono un dato di fatto della (futura) società in costruzione, non possiamo fare finta che non esistano e non possiamo neppure regolamentarli davvero, perché non ci riusciremmo: nessuna tecnologia della comunicazione sufficientemente accessibile è mai stata veramente guidata da altro che i desideri delle masse: la scrittura, il ciclostile, le fotocopie, le audiocassette, le VHS, i CD sono esempi di tecnologie della comunicazione che, una volta messe in mano alla gente comune, l’hanno servita fedelmente fino al sorgere di tecnologie ritenute migliori e più efficaci, in alcuni casi in barba a regimi più o meno repressivi, dall’Unione Sovietica alla lobby dei produttori cinematografici.

Diverso è il caso della televisione, che non è facilmente accessibile, o della stampa libraria, che nonostante la nascita e diffusione del Print On Demand (POD) che permette di ottenere l’oggetto fisico libro è carente al momento della distribuzione e propaganda: queste tecnologie sono ancora saldamente in mano a chi ha il denaro a disposizione per usarle.

L’efficacia di una tecnologia della comunicazione non è però un valore intrinseco, dipende in parte dai contenuti che deve veicolare e la cui forma finisce per influenzare: è chiaro che ci sono strumenti che sono ottimali rispetto ad altri per trasmettere certi contenuti, ma è pur vero che esiste un rapporto di azione e retroazione con cui i canali della comunicazione influenzano i loro contenuti, motivo per cui un testo ha forme differenti a seconda che sia destinato al capitolo di un libro, a un blog, a un podcast, a un video su youtube anche se parla sempre della stessa cosa.

Quello che si può fare, allora, è capire come selezionare e premiare, o strutturare i contenuti in modo da sfruttare le caratteristiche e i limiti delle tecnologie che abbiamo oggi a disposizione per evitare lo scenario a cui rischiamo di esporci se non faremo nulla (sempre più imbecilli che si credono sempre più onniscienti). Riconoscere buoni software, usarli, promuoverne l’utilizzo e diffondere con la pratica e l’opinione le ragioni per cui vale la pena di salvarli. È molto più semplice di quanto si possa pensare, basta pensarci.

Perché i concentrarsi sui videogiochi, anzi, sui mobile games?

I mobile games sono prodotti comunicativi con alcune peculiarità che vale la pena di identificare:

  • sono fatti apposta per i dispositivi sui quali vengono fruiti, che sono i dispositivi con il maggior grado di accesso oggi. In molti casi sono strutturati, in maniera assai competente, in modo da sfruttare le caratteristiche contestuali ed ergonomiche di quei dispositivi: sessioni brevi, pochi comandi, livelli introduttivi con poche spiegazioni e in alcuni casi struttura del gioco semplice per favorire il casual gaming[7].Tutto questo vale per la maggior parte del software[8], ma…
  • sono ricchi di contenuto. In più, si tratta di un contenuto che di solito non è pensato per essere personalizzabile o modificato: il gioco lo fruisci per com’è, non è un blog o un social network (anche se esistono casi di social gaming: dagli eventi di Fortnite agli scambi con gli amici in PokemonGo, per citare due casi di facile accesso) i cui contenuti dipendono dalle mode del momento o dalle manipolazioni di una Cambridge Analitica qualsiasi, anche se quello che fa l’azienda russa Wireless Lab con i dati degli utenti di Faceapp è quantomeno discutibile;
  • spostano quantità di denaro rilevanti (in media a livello globale il 74% della spesa negli app store), dato interessante non per uno sterile dimensionamento del mercato, ma perché tradisce la propensione all’uso e alla spesa: come per le palestre, chi spende poi usa;
  • i giochi sono strumenti potenti, possono fornire occasione di esercizio di coordinamento mano-occhio, di mobilità fine, di logica, di problem solving, possono contribuire a costruire o rafforzare un set di nozioni o un vocabolario, sono in generale costruiti — e questo è quel che ci interessa di più — per preparare i loro fruitori ad aspettarsi sempre di più, e non di meno e, in più, vengono generalmente percepiti come desiderabili, e questo li rende gli strumenti ideali per avviare una guerra culturale che nell’epoca degli smartphone e dei social network non può più passare soltanto dai mezzi di informazione, dai libri e dalle scuole.

Esistono giochi ben fatti e giochi malfatti, educativi e diseducativi (a volte in modi che non ci aspetteremmo), divertenti e noiosi; in un altro decennio, io mi sono anche già occupato del secondo punto: giochi educativi e diseducativi (ma non pensare alla scuola, quando menziono l’educazione).

Per rispondere alla domanda che dà il titolo a questo post, dobbiamo giocare con lo smartphone per non rimanere indietro e indirizzare il nostro futuro verso un uso non imbecille delle nuove tecnologie e del mondo, e dobbiamo iniziare a pensare certi tipi di prodotto come mattoncini con cui stiamo preparando il mondo di domani e in secondo luogo una call to action perché imbecilli impreparati in pieno delirio di onnipotenza ne abbiamo già abbastanza, correggetemi se sbaglio.

Meh.

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[1] “State of Mobile 2019”, App Annie. È attendibile anche per l’Italia la stima di tre ore al giorno di cellulare.

[2] I dati sull’Italia sono tratti, dove non altrimenti specificato, dall’”Atlante dell’infanzia a rischio 2019” (un ricco report annuale commissionato da Save the Children).

[3] Anche se storicamente Internet (creata degli anni settanta da Robert Kahn e Vinton Cerf con l’invenzione del TCP/IP, la famiglia di protocolli di rete che permettono di gestire il flusso di informazioni tra due nodi di una rete) e World Wide Web (inventata nel 1990 da Tim Berners Lee nella forma con link e siti che siamo abituati a pensare oggi) sono cose diverse, in questo libro useremo tutti i sinonimi come se fossero esattamente la stessa cosa.

[7] Il casual gaming sta al videogiocare come gli scarabocchi mentre si telefona stanno al disegno: pochi comandi, intuitivi, non richiedono un alto grado di concentrazione o particolari abilità. I casual game sono nati fuori dai cellulari e anche dai computer, visto che il prototipo del casual game è il solitario a carte.

[8] Non per i libri scolastici digitali, per esempio, che sono ancora pensati a partire dal loro modello cartaceo. Ma questo tu già lo sai…

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Adri Allora

Linguist, entrepreneur (co-founder of Maieutical Labs), curious. I’m here on Medium mostly to learn, even when I write something.