Recensione al buio, 2
La fantascienza come non vorresti leggerla
Dopo l’esperienza della prima recensione al buio, e per la serie “è dagli errori che si impara (e non è necessario che siano i tuoi)”, ecco la seconda.
Devo dire che questo romanzo è scritto sensibilmente meglio dell’altro, soprattutto nella seconda parte, e sono statǝ indecisǝ se recensirlo al buio qui o in chiaro sul mio profilo instagram (dove però ultimamente sto soprattutto documentando i miei viaggi fisici e gli incontri che faccio) perché la storia non è male (ne leggerai nell’overview).
Poi mi sono domandatǝ se consiglierei a qualcuno di spendere i 12 euri che costa questo libro e mi sono rispostǝ che no, non lo farei, quindi una recensione al buio ci sta.
Prontǝ? Partiamo.
Overview
La protagonista è la studentessa ventenne che vive in una colonia su un pianeta che i terrestri hanno invaso, la storia inizia con un attacco dellɛ abitanti del pianeta alla colonia, la fuga di tutti eccetto che della protagonista e della sua insegnante che rimangono sul pianeta perché la sua insegnante è una mutaforma che combatte i terrestri. Quel che segue rappresenta un’opportunità per la protagonista di scoprire tanto l’umanità che si è macchiata dei tipici crimini da impero coloniale quanto lɛ indigenɛ.
Iniziamo quindi subito con i punti a favore:
- la cultura indigena rimane sempre inafferrabile e aliena. Ci sono degli sprazzi, ma alla fin fine il percorso che la protagonista fa è più all’interno della propria umanità (o disumanità) che nella cultura altra. Questo è molto realistico, soprattutto nei tempi narrati, e funziona.
- altrettanto bene funziona la conclusione, non imprevedibile eppure sorprendente.
Non funziona invece l’avvio: il motivo per cui la docente della protagonista se la voglia portare dietro per me è rimasto un mistero, accennato con qualcosa che aveva a che fare con lo spirito libero del pianeta (p. 60), ma basti dire che il senso della presenza della studente acquisisce significato nel corso della storia, non all’inizio. Potrebbe essere un altro di quegli elementi alieni della cultura invasa, ma non è accettabile per quel che dovrebbe essere il motore dell’azione.
Dettagli
Iniziamo con il contrario della pistola di Checkov: all’inizio si spiega che la carta, nella colonia è vietata, ma non si capisce perché nè la cosa ha altri effetti che presentare un personaggio come ribelle (e quel personaggio scompare a pagina 6). Ah, no, a quanto pare su carta sono registrati centinaia di documenti che la protagonista e la docente trafugano dalla colonia prima della sua distruzione. Boh, forse mi sono persǝ qualcosa di essenziale, andiamo avanti.
A volte ci sono della battute che ti chiedi perché: a pagina 8, dopo aver recuperato un computer, la docente dice alla protagonista:
“Questo lo porto io. Pesa uguale ma è forse più prezioso. Mi fido di te anche lasciandoti quei documenti.”
Ora, se una battuta suona innaturale, io lettorǝ mi domando che informazione ha voluto far passare l’autrice inserendo quella battuta e se non riesco a capirlo secondo me c’è un problema.
Succede anche con gli eventi: le donne si stanno spostando nella colonia in fase di evacuazione e (p. 9)
Il pavimento le mancò all’improvviso, ma riuscì a non cadere.
“Scusa, non ti avevo avvertita del gradino” si scusò [la docente], guidandole la mano verso un oggetto freddo. “Fai girare questa manopola e io mi occupo di quest’altra. Dobbiamo far scendere il montacarichi.”
Perché raccontare di quell’inciampo (non è un inciampo, ma non conosco il sostantivo di incespicare)? Non arricchisce in alcun modo l’esperienza della lettura, io mi perdo.
Una cosa che patisco molto è una certa ricercatezza lessicale, che finisce per suonare o troppo tecnica o troppo scolastica (p. 10):
Nel pavimento si aprì uno squarcio perfettamente circolare e il veicolo vi si posizionò sopra. […]
Sorvolando su squarci perfettamente circolari, mi chiedo se non esistesse un altro modo per dire che il velivolo si portava sulla botola o sull’apertura circolare appena comparsa sul pavimento. In generale: posizionarsi è un verbo con cui l’ingegneria si intrufola nella narrativa, e per questo sotto un certo grado di esperienza di scrittura è difficile da usare bene, e il vi avverbio di luogo ormai ha fatto il suo tempo anche nell’high fantasy. Un po’ come bensì e codesto.
Poi torniamo a un mio vecchio amico (p.12), il micro info-dumping:
“Non preoccuparti, ho impostato come destinazione automatica il bosco dove Jordan, il tecnico della scuola, ci sta aspettando. L’intera città ha cercato scampo sulle navette d’emergenza, quelle in uso ai militari, e non so dove andrà… noi però abbiamo un altro compito da svolgere per la direzione”.
Tutto quello che c’è dopo il punto è superfluo e può essere detto altrove e in altro modo. Magari ci sono tanti Jordan, ma io non sono tenutǝ a saperlo, piuttosto poteva scrivere “un tecnico della scuola”.
L’aiuto da parte di questo umano non è peraltro ben giustificato, nel racconto, in generale la posizione della professoressa rispetto alla direzione (umana, suppongo) rimane nebulosa. Ma ci può stare, invece uno scambio come quello di p. 15 è completamente fuori da ogni quadro di riferimento:
“Dannazione, Jordan, riuscirai mai a frenare in modo decente prima di schiantarti da qualche parte?”
“Va bene che voi insegnanti siete delicate, ma dovete comprendere la difficoltà di questo terreno”.
“È una maledettissima pianura, idiota!” Ringhiò [nome della docente], alzandosi di scatto dal sedile.
“Ferma! Dovete aspettare…”
“Non me ne importa niente delle tue stupide regole di sicurezza, chiaro? Ho gestito un’altra navetta prima di arrivare qui, e sono sopravvissuta nonostante io sia una delicata professoressa e non un’esperta come te”.
Sbigottitǝ. I ruoli dei personaggi sono completamente saltati e la scena non è chiara (quante altre volte hanno volato insieme? E poco dopo la docente affermerà: “Se non mi avessero rifilato il solito incapace, avremmo potuto approfittare di queste poche ore per riprenderci”, cioè, tipo ha frenato per quelle poche ore?).
Quando arrivano in un nascondiglio in una specie di villaggio residenziale, la protagonista dimostra un’attenzione e una volontà di valutazione estetica (p. 17, prima con un parallelismo sintatticamente ardito: “Aveva tanto amato le immense vetrate della scuola e gli ologrammi divisori, tanto quanto quelle pareti bianchicce e il pavimento di legno, coperto dai resti di moquette, erano un insulto ai progressi dell’architettura; e dell’estetica.” E poi: “Salirono la scala ad angolo tra mille cigolii e percorsero un corridoio stretto, dall’allucinante tappezzeria a righe”) che però non torna in alcun modo. Serve a farle sentire il disagio? A comunicarci una sua compertenza? Invece qualcosa torna, perché a p. 19, ex abrupto, la professoressa dice:
“Jordan è partito stanotte, ma era ancora in vista quando la navetta è esplosa”.
Quando l’ho letto ho pensato: eeeh? Davvero serviva tutto quello che c’è dopo la virgola? Questo desiderio di dare informazioni avviene a livello ancora più puntuale (p. 41) come quando alla richiesta se voglia qualcosa da mangiare, la protagonista reagisce così:
“No, credo che berrò un infuso e basta. Se non sbaglio, lei deve ancora esaminare le memorie” rifiutò [nome della protagonista], alzandosi.
Se ha detto “no” nel discorso diretto, puoi evitare di specificare che ha rifiutato. Ecco, i verba dicendi potrebbero essere un buon indicatore di buona scrittura. Così come i nomi propri nei dialoghi (p.47, ma succede in un altre occasioni, ad esempio a pagg. 58, 59, 63, 64, 65, 68, 99 eccetera):
“Non difenderla, [nome della docente]! Perché vuoi mettere a repentaglio tutto il nostro lavoro per una ragazzina?”
“[nome del capo degli indigeni], non darmi ordini” sibilò la mutaforma, accomodandosi davanti al terminale. “Non sto mettendo a repentaglio nulla, faccio solo ciò che reputo giusto”.
E quando ho letto questa frase ho pensato che “faccio solo ciò che reputo giusto” è una delle frasi da leggere più detestabili di sempre.
Ci sarebbe altro ma, come rispondono le ragazze quando le apostrofo con “vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e fai ‘sti cazzo di compiti!”, devo farmi una vita.
Conclusioni
Quando ho fatto la primissima presentazione del mio prontuario di punteggiatura, sono statǝ presentatǝ da uno che il libro non l’aveva neanche apprezzato, e mi ha asfaltatǝ. Poco male, si impara da tutto e da tutti, anche quando fa male. Il motivo per cui questo tipo (che quando avrò l’opportunità asfalterò anche io, perché il fatto che trovi la forza d’imparare non mi fa sorvolare sulle ferite che ha inflitto al mio ego) non aveva apprezzato il mio prontuario è semplice: io sostenevo, e sostengo tutt’ora, che la punteggiatura funziona bene quando risponde a regole ben precise, ma funziona magistralmente quando quelle regole le infrange con cognizione di causa. Solo che anche le infrazioni, per riuscire bene, devono rispettare dei principi che sono ben chiari. Questo tizio, invece, è uno di quelli che “lo stile è qualcosa che non può essere razionalizzato”, “il talento non ha spiegazioni” e sciocchezze simili. Un mistificatore, insomma.
E le mistificazioni funzionano bene, quando ci si confronta, perché non richiedono di essere spiegate o argomentate, basta che suonino accattivanti.
Bene, leggendo questo testo mi sono chiestǝ spesso cosa avessi di sbagliato io, perché non mi accontentassi di leggere quel che c’era scritto e non procedessi attraverso la storia fino alla sua fine. Perché continuavo a chiedermi: perché me l’ha scritto? Poi ho capito: la capacità sta non nello spiegare tutto, anche nello spiegare perché si sta spiegando quel che si sta spiegando, ma nello spiegare senza che lǝ tuǝ lettorǝ se ne renda conto. Pensaci: è qualcosa che ha a che fare con la mistificazione, ma è anche molto di più. Quindi il testo fallisce nel momento in cui io lettorǝ interrompo la mia fruizione perché qualcosa “non funziona”. Non l’ho inventata io, ‘sta roba, è il vecchio discorso della sospensione dell’incredulità, ma mi è molto utile cercare di individuare i segni di quello che non funziona perché facendolo spero di arrivare al momento in cui scrivere bene non sarà una questione di talento o stile (o di “magia della scrittura”), ma di tecnica.