Cielo in gabbia.

Scuse

Adri Allora
4 min readAug 18, 2023

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È un periodo un po’ così e ho bisogno di scrivere. Con poche eccezioni qui su Medium racconto quel che penso perché, anche se questo è un diario, se ci vieni vuoi leggerci parole dotate di raziocinio, non cose di pancia che già abbondano sui social network (anche se cercano disperatamente di mascherarsi da idee sensate). Ma a volte trovo necessario raccontare quel che provo.

Mettendomi alla tastiera, avevo bisogno di esprimere due emozioni molto diverse tra loro che non so definire. Altrimenti mi limiterei credo a scrivere “provo tristezza” o “mi sento emotivamente debole” e questo post sarebbe assai più corto.

Perché la gente non vuole essere felice?

Io sono uscitǝ da Facebook per questo motivo (anche se continuo a imbattermi nel fenomeno anche su Instagram e Linkedin), ma sono certǝ che è capitato anche a te: su un social network hai letto un post di una persona qualsiasi (non un’istituzione, unǝ cittadinǝ qualsiasi) che qualcuno ha commentato con sarcasmo, rimproveri, insulti o minacce. Poi magari vai a vedere e scopri che il commentatore o la commentatrice lo fa sistematicamente. Di solito è gente che attacca posizioni in qualche modo legate al transfemminismo intersezionalista (transfemminismo, ecologia, antirazzismo, antispecismo e qualcos’altro che adesso mi sfugge), ma sarà un caso.

Quando mi capita, un’antologia di domande sboccia nella mia mente: non ha niente di meglio da fare? Cioè: qual è la contropartita in cambio della quale dedica tempo e risorse a quell’attività? Davvero pensa di cambiare il mondo rispondendo a quel post? O: davvero riceve dei benefici psicologici grazie alla sua risposta? Si renderà conto del fatto che trarre godimento da una replica in cui non è contemplata una qualche forma di complicità con chi produce il contenuto di partenza significa provare piacere grazie a un gesto aggressivo? In altre parole, che vita di merda vivi se ti piace aggredire le persone comuni che la pensano diversamente da te? E, giuro, quel che non riesco a non chiedermi nel profondo è: ma non starebbe meglio se invece di fare questo facesse qualcosa che lǝ fa stare veramente bene? Anche solo cercare di stare bene? Non so: stare in famiglia, giocare o videogiocare, imparare a programmare o una nuova lingua o abilità, scrivere, meditare, disegnare, dipingere, fare musica o qualche attività sportiva o, chessò, sesso (ma lo dico solo perché ne parlo tra poco)?

Queste persone si rendono conto che fare questo toglie tempo a forme di felicità più durature della momentanea scarica di dopamina che regala sfogare rabbia repressa su unǝ perfettǝ sconosciutǝ?

Genere e sesso

Ho scritto una cosa a metà tra memoir e autofiction. È stata l’ultima cosa che ho scritto e dopo non sono riuscitǝ a scrivere nient’altro (a parte cose brevi qui su medium). L’ho scritta perché scrivere è il modo che conosco per affrontare le questioni, per pensare e ragionare, per fare i conti e capire e fare pace, con me e con le altre persone, per dare un senso alle cose.

È un racconto sull’illusione secondo la quale a un certo punto della nostra vita potremo dire che siamo diventatɛ grandi, che ce l’abbiamo fatta: abbiamo un lavoro, una famiglia, delle certezze.

Quando ho finito questo racconto, come spesso mi capita perché ho la maledizione di apprezzare quello che scrivo, ho deciso di farlo leggere in giro per capire se davvero è bello come mi pareva oppure no.

La seconda persona che lo ha letto mi ha detto una cosa che subito non sono statǝ capace di processare, come spesso mi succede, ma che poi mi ha colpito con forza. Si parlava della transizione di genere e del sesso e, nella percezione del mio lettore/redattore, c’era un buco nel racconto perché non parlavo mai di sesso. Cioè, parlavo di genere, ma non di sesso, e questo rendeva incompleta la narrazione.

Della transizione.

Ma il genere, e la percezione del proprio genere, è una cosa che può essere slegata dal sesso. Un uomo è un uomo perché si sente tale, che scopi o meno. Una donna uguale. Una persona non binaria uguale. Ciò che sei anzi sarebbe logico che precedesse quello che fai, e con chi lo fai, anche se spesso è successo per arrivare a chi siamo abbiamo sperimentato strade che non erano quelle in cui ci saremmo riconosciutɛ (in realtà, come dice spesso l’amica Filo, “non esistono manuali”, quindi sarebbe logico è la formulazione corretta: potrebbe non esserlo, o quella potrebbe non essere l’unica logica accettabile).

A posteriori l’idea di un genere funzionalizzato al sesso mi fa accapponare la pelle, ma è affascinante, perché mi guardo intorno (io giro in senso orario, il mondo si gira invece in senso antiorario, e la colonna sonora di questo pezzettino di montaggio è “Freedom!”) e mi rendo conto che il mondo funziona così.

Il punto di contatto

Nella mia playlist di Youtube, subito dopo il pezzo di George Michael c’è “Shake it off” (Taylor Swift) che mi piace tantissimo e che mi viene sempre da ballare, anche se sono ancora sedutǝ a scrivere mentre già mi dimeno convulsamente (non potrei definire altrimenti le mie capacità tersicoree).

Poi la musica si ferma e mi lascia solǝ con le mie parole e prima che parta “Royals” (Lorde) ammetto che un punto di contatto tra queste due emozioni così diverse c’è: non ho mai capito le persone.

Mai.

Ma ogni volta che si riconosce una manchevolezza è buona educazione cercare, se non di rimediare, quantomeno di evitare che si riproponga. Non so se ne sarò capace: purtroppo ammettere di non capire le altre persone non implica acquisire la capacità di farlo. Però ecco, per il momento scusate. Adesso almeno lo so. Posso ripartire da qui.

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Adri Allora

Linguist, entrepreneur (co-founder of Maieutical Labs), curious. I’m here on Medium mostly to learn, even when I write something.