Abbiamo già tutti gli strumenti
La scuola è diventata un luogo odioso in cui stare, ma non tutto è perduto
La scuola già prima della pandemia non piaceva a tutti, non è un mistero. Sarebbe interessante capire perché, come è successo che un luogo potenzialmente meraviglioso di apprendimento, sperimentazione e socializzazione fosse diventato in troppi casi una struttura di controllo, classista e castrante, sarebbe anche interessante quando è successo e se è mai stato quel luogo in potenza oppure no, ma lo faranno persone più qualificate di me nelle sedi opportune. Forse.
Io mi limito a registrare quello che imparo ascoltando e leggendo quello che hanno da dire docenti in giro per l’Italia, e a fare alcune considerazioni.
La scuola è un posto odioso in cui stare, lo è per
- studenti, costrettɛ a stare per ore ferme al banco, indossando una mascherina, senza poter condividere il lavoro… c’è una bella definizione, nel mondo dei giochi da tavola: “solitario di gruppo”, in cui ognuno fa la propria partita senza interagire con le altre e, ad esempio, vince se ottiene un certo punteggio prima delle altre. Possono essere giochi molto stimolanti, io stesso ne apprezzo alcuni, ma sono agghiaccianti nell’ottica dell’apprendimento perché l’apprendimento è, a partire dai neuroni specchio per arrivare alla coppia docente-discente, interazione. Interazione, vale la pena di ribadirlo, ridotta al minimo nelle lezioni frontali (di cui abbiamo già parlato, qui).
- studenti, costrettɛ a fronteggiare problemi di comunicazione dal proprio computer (quando c’è, un computer), ascoltando un docente che deve fare una lezione un po’ in presenza e un po’ in assenza, con possibilità didattiche ancora più limitate di prima (perché almeno con la DAD per tutta la classe quelli che ne erano capaci potevano costruire lezioni basate sulla distanza: io di lezioni di insegnanti competenti ne ho viste/sentite il resoconto), invece adesso…
- docenti costrettɛ a fare da cani da guardia prima che insegnare, limitatɛ nelle loro possibilità comunicative e spesso caricatɛ di oneri da segreteria didattica;
- segreterie costrette a gestire comunicazioni deliranti e fittissime con le ASL per segnalare casi sospetti/conclamati, gestire la comunicazione con le famiglie, le quarantene, l’accesso alle lezioni;
- famiglie che non sanno più come girarsi, tra regole che cambiano, situazioni al limite del paradossale nelle quali vedono affogare figli e figlie e un mondo del lavoro che della scuola se ne frega.
La scuola è diventata un problema, invece di essere una risorsa.
E se non ci credi, prova a chiedere tra le tue conoscenze sotto i cinquant’anni quante pensano ancora che la scuola possa essere un ascensore sociale.
Tu ti lamenti sempre, ma non hai la bacchetta magica
Mi dicono quando parlo di scuola.
Non c’è bisogno di bacchetta magica. Serve la volontà, serve il dialogo, serve lo spirito di corpo del comparto scuola. Servono le rivoluzioni a cui puntare, tutto il resto c’è già.
Facciamo qualche esempio.
Devono cambiare i contenuti
Per prima cosa, è idiota pensare che le e i ragazzi raggiungano gli stessi obiettivi di quelle che c’erano prima della pandemia. I programmi devono cambiare, perché lɛ discenti di terza media non sono spesso più in grado di cercare un’informazione in un libro o di usare uno schema per svolgere un compito complesso. E se non lo sanno fare è perché nei due anni precedenti troppɛ docenti hanno evitato di ragionare su come dovevano cambiare contenuti e contenitori per raggiungere certo obiettivi.
Cambiare i contenuti non significa abbassare l’asticella, ma puntare alle competenze (ah, le competenze, questo mistero! Guarda, se sei uno di quellɛ stronzɛ che “le competenze non si capisce neanche cosa siano”, vergognati, studia e documentati, pure io l’ho capito cosa sono e come si usano) per arrivare il più possibile vicino alla formazione di cittadini e cittadine felici e competenti.
Ah, smetti di leggere qui anche se sei una di quelle docenti che “lo studio è sofferenza”. Lo studio è esaltazione per l’apprendimento, è la fatica felice di quando facciamo qualcosa che ci appaga e diverte o che alla fine di darà soddisfazione, non sofferenza. La sofferenza è quello che patiscono i tuoi e le tue discenti perché non sei capace di fare il tuo lavoro.
In realtà, probabilmente puoi smettere di leggere pure se sai che il miglior modo di rendere efficaci ed efficienti le tue discenti è motivarlɛ (lo ripeto perché non è scontato: punizioni e paura non sono motivazioni utili nella didattica), ma solo perché non dirò nulla che tu già non sappia.
Aspetta, scusami, devo proprio ripeterlo:
punizioni e paura non sono motivazioni utili nella didattica
Riprendiamo il discorso principale: cosa vuol dire partire dalle competenze? Vuol dire mettere da parte tutto quello che gli editori di scolastica (ciechi a qualsiasi cambio di contesto) hanno fatto negli ultimi anni e ragionare sui metodi di lavoro, vuol dire punire le case editrici di scolastica che non hanno fatto nulla per adeguarsi alla situazione, smettendo di adottare i loro libri, e premiare quelle che invece hanno lavorato nella prospettiva di accompagnare le docenti in questi ultimi anni.
Devono cambiare le condizioni di lavoro
Meno studenti per classe.
Le classi tutte nella medesima modalità: in presenza o in assenza.
Abolizione dei voti e riforma del sistema di valutazione nella scuola dell’obbligo.
Meno ore di lezione in classe per studenti: quattro al giorno, alla mattina oppure al pomeriggio, con docenti che seguono il doppio delle classi.
Docenti che sono retribuitɛ solo per il loro lavoro in classe e per la progammazione, non per la correzione dei compiti: i compiti non devono esistere più per lɛ docenti, abbiamo le tecnologie per farlo.
Meno vacanze (gli effetti nefasti per il summer loss sono riconosciuti nella ricerca), ma più spesso. Invece di due mesi e due terzi di vacanza in estate, un mese di fermo in estate, senza compiti delle vacanze, e altre tre interruzioni da due settimane nel corso dell’anno.
Strumenti di misurazione continua dell’efficacia degli istituti e dellɛ docenti con KPI chiari allɛ docenti per permettere interventi mirati e specifici.
Deve cambiare l’approccio
Cosa vuol dire partire dalle competenze? Vuol dire tante cose ma, per cominciare, ragionare con lɛ discenti sui metodi di lavoro.
Prima le cose generali: lo scopo dell’apprendimento di ogni cosa nuova che imparo, gli oggetti del mio percorso di apprendimento e il loro uso, la consultazione di fonti di informazione utile, l’interazione con le altre persone coinvolte nel processo formativo. Poi le attività specifiche di ogni disciplina: i linguaggi settoriali, gli obiettivi specifici, i metodi e le procedure. Infine lo sviluppo di strumenti applicativi e capacità critiche nei confronti della disciplina. Queste cose, le competenze, non sono slegate dalle conoscenze: sono loro strettamente intrecciate. Ma è tradizione, perché è più facile, concentrarsi sulle conoscenze: verificare che lǝ discente sia capace di richiamare la data di un evento invece che dialogare con lǝi per capire se è in grado di vedere le conseguenze di quell’evento nel suo contesto e nel nostro contesto.
È difficilissimo, ma impostando il lavoro così, magari con un occhio al protocollo Senza Zaino, mettiamo nelle mani delle nuove generazioni una nuova capacità di fronteggiare i problemi.
E di essere sereni in questo mondo che cambia in modi minacciosi e imprevedibili.